Francesco Guccini : La nostra «avvelenata» (Guccini non ne ha colpa)

Guccini

In Italia, a partire dal 27 settembre 2016, le librerie e le edicole hanno cominciato a proporre l’opera completa di un grande autore della canzone italiana della seconda metà del 20 secolo: Francesco Guccini.

Mercoledì 28 settembre, dalle 12:00 alle 14:00, al Séminaire Média dell’ULg (Place du 20 Août 7, 4000 Liège), nel quadro del corso « Etudes de textes littéraires italiens modernes II » (L. Curreri), dedicato a « La culture et la chanson en Italie », Gabriele Belletti e Luciano Curreri hanno presentato e commentato « L’avvelenata » di Francesco Guccini (cf. Via Paolo Fabbri 43, LP del 1976), il cui primo verso, infatti, dà il titolo a quest’ultima edizione della sua discografia « Francesco Guccini. Se io avessi previsto tutto questo. Gli amici, la strada, le canzoni » (corsivo nostro).

Nostra intenzione è di trarre da questa lezione un istant-book su cui stiamo già lavorando e di cui siamo lieti di pubblicare una parte in anteprima su «Mixed Zone».

En Italie, à partir du 27 septembre 2016, les librairies et les kiosques à journaux ont commencé à proposer l’œuvre complète d’un grand auteur de la chanson italienne de la seconde moitié du 20e siècle : Francesco Guccini.

Le mercredi 28 septembre, de 12h00 à 14h00, au Séminaire Média de l'ULg (Place du 20 Août 7, 4000 Liège), dans le cadre du cours « Études de textes littéraires italiens modernes   II » (L. Curreri), consacré à «La culture et la chanson en Italie », Gabriele Belletti et Luciano Curreri ont présenté et commenté «L’avvelenata » de Francesco Guccini (cf. Via Paolo Fabbri 43, LP de 1976), dont le premier vers, d’ailleurs, intitule le dernier opus de sa discographie: «Francesco Guccini. Se io avessi previsto tutto questo. Gli amici, la strada, le canzoni » (souligné par nous).

Guccini-avvelenata

Notre intention est de tirer de cette leçon un instant-book – travail qui a déjà commencé – dont nous sommes heureux de publier une partie en avant-première dans «Mixed Zone».

 

 

 

La nostra «avvelenata» (Guccini non ne ha colpa)

LC – La prima volta che ho sentito L’avvelenata di Francesco Guccini (Modena 1940) dovevo avere dieci anni, mese più mese meno. Ero, immagino, in ‘vacanza’ dai miei zii emiliani, quelli del ramo materno della famiglia, a Quartiere, un paesino come tanti altri in provincia di Ferrara, per me un posto speciale. La trasmetteva probabilmente Radio Attiva, la Radio libera spuntata, come un albero, su di un fianco della Chiesa.

SugoIn Italia, gli anni Settanta sono stati gli anni di piombo, gli anni del terrorismo, delle tante crisi petrolifere (e non solo), ma sono stati anche gli anni delle Radio Libere, a volte vere e proprie fucine creative, a volte posti anche abbastanza squallidi, ma insomma, per uno di dieci anni o su di lì, che aveva la possibilità di frequentarne una, lungo l’estate mitica d’un tempo, dalla raccolta delle fragole alla vendemmia, passando per i cocomeri, la Radio Libera era un posto in cui sentirsi libero, dentro e fuori. Lo so, dirlo ha qualcosa di banale. E poi l’hanno detto in tanti, in quegli anni. E l’hanno pure cantato. Eugenio Finardi (Milano 1952), proprio nello stesso anno in cui esce «L’avvelenata» di Guccini, il 1976, ci ha scritto una bellissima canzone, sulla radio, che a un certo punto dice: «e se una radio è libera, ma libera veramente, mi piace anche di più, perché libera la mente».

Il titolo della canzone di Guccini, comunque, mi sfuggiva, non lo afferravo al volo. Mi sembrava mancasse qualcosa. Perché per me c’era sempre qualcosa prima di «avvelenata». Conoscevo la mela avvelenata, la palla avvelenata… E poi l’acqua avvelenata. Tra favola, gioco e realtà, tra Biancaneve, pomeriggi insonni come mai più nella vita e acquedotti che lasciavano a desiderare, avvelenata doveva essere sempre una parte del nostro microcosmo, piccola magari ma significativa. Non era, la mia, un’analisi grammaticale. Che so, con avvelenata aggettivo e canzone sostantivo sottinteso. Sotto ci doveva essere qualcosa di più, anche di più di un possibile aggettivo sostantivato. Quel Guccini, il cui faccione barbuto mi spiava dalla copertina, doveva avere avvelenato apposta un pezzo del Suo disco, forse col famoso dente avvelenato di cui sentivo parlare di tanto in tanto e a che a me evocava più che altro il morso del rettile che più mi faceva paura, la vipera. O forse, mi dicevo, in via Paolo Fabbri 43 (ero sicuro che fosse il Suo indirizzo e seppi poi che avevo ragione), c’era rimasta un po’ d’acqua rancida, da fosso, e, a furia di berla, il Guccini, un giorno, aveva finito per vomitare, per l’appunto, una canzone indigesta, infetta.

 

GB – Io a dieci anni mi ‘trovavo’ nel 1990, l’anno dei mondiali di calcio italiani, a un passo dagli anni ben più bui di tangentopoli che così tanto hanno segnato la politica e la storia italiana. Da lì a poco, inoltre, le radio e le tv commerciali, già ben avviate, avrebbero monopolizzato molti spazi ‘liberi’, imponendo una visione che non ha lasciato l’immaginario italiano indenne – non a caso lo stesso Guccini sostituirà, eseguendo L’avvelenata nei concerti, il nome di Bertoncelli, critico che come vedremo avrà un ruolo determinante nella nascita della canzone, con quello di Berlusconi.

Guccini, per me, era ed è un nome altisonante, una delle colonne cantautoriali italiane che sono sempre esistite, di cui ho sempre sentito parlare. Ma vorrei ricordare un’occasione particolare, forse minima, ma importante per me e per alcune altre persone, in cui Guccini mi si è avvicinato, ri-avvicinato, dopo anni in cui non lo avevo più sentito e ascoltato. Ho insegnato alcuni anni a Nantes, al Centre Culturel Franco-Italien. Lì ho avuto l’occasione di lavorare con Frédéric Cherki, un professore di italiano che, sì, è stato il primo a scrivere una tesi di laurea su Guccini. Questo si è rivelato determinante, non solo perché gli studenti (adulti) me ne parlavano molto spesso (con Frédéric hanno analizzato – e cantato – molte sue canzoni e pure letto alcuni libri del Nostro, che è anche narratore di vaglia), ma anche perché, organizzando insieme un viaggio in Italia nel 2013, ha reso possibile l’incontro a Pavana con l’autore di L’avvelenata. Frédéric è riuscito, tramite dei contatti che gli erano stati utili per redigere la sua tesi, a far sapere al cantautore che ‘il Cherki della prima tesi’ sarebbe stato da quelle parti coi suoi studenti in quel giorno di maggio. Così, non sicuri della sua presenza, dopo aver visitato Bologna, Modena, Pieve di Cento (da poco colpita dal terremoto), tutti insieme siamo arrivati al Mulino di Pavana, suo ‘luogo d’infanzia’. E, dopo qualche minuto, lui si è presentato, con la grandissima gioia di tutti i francesi e mia, unico italiano (espatriato)...

 

 

L’avvelenata, Francesco Guccini

avvelenata[1] Ma s’io avessi previsto tutto questo,
dati causa e pretesto, le attuali conclusioni
credete che per questi quattro soldi,
questa gloria da stronzi, avrei scritto canzoni?

GB - [1] Il riferirsi a un ‘voi’ è determinante nella canzone, sembra esistere un pubblico a cui Guccini pensa, a cui si rivolge, e lo fa in maniera onesta, quasi senza filtri, almeno per quel che riguarda il contenuto. L’io ha delle cose da dire a qualcuno. Diverso il discorso sulla forma: il ritmo e le rime, anche interne, sono ‘mirati’, sono stati scelti con attenzione (ma su di un treno, comunque). Ciò crea un contrasto, mi pare, che rende ‘il veleno’ diretto ma accurato, come se il flusso di ritmo e rime e della materia del cantare riuscisse a farsi strada in questo modo, e trovare attenzione, mirando a un ‘voi’ sin dall’inizio. Contrasto che si rinnova, a volte, anche nella scelta lessicale, nell’avvicinare parole del linguaggio quotidiano, ‘basso’, come «stronzi», ad alcune più ricercate, come il successivo «Crucifige» francese. I gros mots della canzone appaiono come fuochi d’artificio lessicali che riescono ad avere la funzione anche di attirare l’attenzione necessaria.

Guccini delinea anche la figura e il lavoro del cantautore e alcune sue caratteristiche, tra le quali il non essere riconosciuto come si dovrebbe; la «gloria da stronzi», però, sembra riferirsi anche alla vana gloria di coloro che, cantanti o cantautori, pensano di essere ‘superiori’, e, quindi, per Guccini, visti come «stronzi». Sta di fatto che la «causa» e il «pretesto» che lo hanno spinto a fare canzoni non si sono rivelati portatori di condizioni accettabili. È come se la fatica e il peso dell’essere cantautore e il movente che lo hanno spinto ad esserlo non abbiano avuto e non abbiano un corrispettivo ‘giusto’, anche monetario («questi quattro soldi»). La risposta alla domanda della prima strofa, domanda che pare retorica, potrebbe essere a prima vista negativa; forse il ‘voi’ a cui si rivolge, per così poco, non avrebbe davvero intrapreso un simile percorso. Guccini invece, rispetto anche a quanto dirà dopo, credo risponderebbe: «Sì, le avrei scritte comunque, alla faccia vostra!». Insomma, vedo dell’ironia sottile, già in questa prima strofa. Un’ironia interrogativa e sorniona che fa l’occhiolino all’ascoltatore ‘puro’ che Guccini sa essere dalla sua parte. Diverso il discorso per quel che riguarda i critici, come si vedrà.

 

LC – [1] La canzone inizia dalla fine o, quanto meno, da una specie di fine giocata intorno a quelle «attuali conclusioni» (e, lo vedremo, come trattenuta da una ‘penultimità’, da un discorso che non vuole darsi per concluso, che si ribella alle «attuali conclusioni»).

E c’è da chiedersi chi le tira quelle «conclusioni» e chi le rende «attuali». Verrebbe da rispondere, di primo acchito, che si tratta dell’io lirico o, se si vuole, dell’alter ego dell’autore reale, ma Guccini, forse, si metterebbe a ridere, sia perché di certe riflessioni intellettuali e strutturali fa volentieri a meno (come lascia intendere in Via Paolo Fabbri 43, il brano che dà il titolo all’album dove figura L’avvelenata per l’appunto), sia perché quelle conclusioni non sono previste dall’autore.

Quest’ultimo - con brio e ironia malcelati da un tono mesto ma non troppo - si mette in scena piuttosto come una persona travolta da quelle conclusioni: le «attuali conclusioni» non paiono far altro che travolgere un cantautore che per tutta la canzone non farà altro che dichiararsi, più o meno esplicitamente, «inattuale». Ecco perché, disegnando rapidamente un quadro, un contesto che non offre propriamente né ricchezza né gloria, il Nostro procede a un’autocritica giocosa che, un po’ come ogni autocritica, finisce per contenere anche una certa autocelebrazione, via via che l’«avvelenata» canzone si sviluppa, con obiettivi polemici precisi e significativi (dai «critici» e «militanti severi» della strofa 5 ai «colleghi cantautori» della 13). Ma, fin dal suo incipit, il testo, già articolato e incisivo, ci appare come la risposta di Guccini a qualcosa, a qualcuno, quasi una specie di ‘racconto-vendetta’ che va al di là del singolo, delle offese subite da un individuo, e sposa un più largo discorso intergenerazionale e generazionale a un tempo, da cui, a mio modestissimo parere, discende una buona parte del successo della canzone e la sua non spenta e sempre lucida forza polemica, battagliera.

In effetti, fin dalla seconda strofa [2], l’autore, parlando di sé, apre implicitamente a un ‘collettivo’, a un ‘noi’ che in quegli anni – e ancora dopo, in non banale prospettiva e in una peraltro azzeccata profezia che ribalta subito l’incapacità iniziale di prevedere qualcosa - non doveva essere così striminzito e poco simbolico. In molti, infatti, potevano trovare radici in una «razza» intergenerazionale che poco aveva di unico e di razzista e identificarsi in quel più generazionale «son della razza mia, per quanto grande sia, / il primo che ha studiato».

In Italia – insieme alla e oltre la generazione di Guccini (del 1940, ricordiamolo) - cresceva ancora la «razza» dei primi che hanno studiato, muovendo tra la nascita delle nuove Scuole Medie, all’inizio degli anni Sessanta, e quanto aveva prodotto lungo gli anni Settanta, nel bene e nel male, il celebre Sessantotto. Per quanto bistrattata e offesa, dai banchi di scuola (specie quelli delle scuole alte, come si diceva un tempo celiando) ai sogni d’arte e di vita alternativa, quella «razza» aveva un legame serio e sincero, oltre che scherzoso e straniante, con le generazioni che l’avevano preceduta e che avevano poi nutrito – e parecchio – l’epoca lunga degli studi con la propria discendenza; e a partire dalla generazione dei genitori, non a caso chiamati in causa nella strofa successiva [3].

 

[2] Vabbè lo ammetto che mi son sbagliato
E accetto il Crucifige e così sia.
Chiedo tempo, son della razza mia, per quanto grande sia,
il primo che ha studiato.

GB - [2]  Mi ha colpito subito questa seconda strofa, soprattutto perché l’‘io-cantante’ confessa di essere un Ettore, un perdente o, comunque, qualcuno che si è «sbagliato», un essere umano come gli altri, che si confessa come tale. Il chiedere «tempo», però, denota una progettualità che si è radicata negli studi (l’io è umano ma anche umanista), non vi è ingenuità nel cammino dell’errore. Chi canta non rinnega il percorso che lo ha portato a errare, anzi, nel dire «il primo che ha studiato», l’io si dichiara pioniere (il che sottende, inevitabilmente, la possibilità di errare: ecco, si potrebbe parlare di ‘errare’ in cerca di altro rispetto alla «razza mia» ed un ‘errare’ come commettere degli errori, sbagliare). Di più: proprio il fatto di aver osato, di essere stato il primo a studiare, ha reso possibile, forse, la scrittura e la riflessione in musica che qui prende il via e lo scegliere la rima ‘ossimorica’ tra «sbagliato» (v.1) e «studiato» (v. 4). Inoltre, al giorno d’oggi, credo vi siano sempre meno persone, soffermandomi al solo contesto italiano, che possano dire «io sono il primo che ha studiato» in famiglia, soprattutto se ci si riferisce all’aver intrapreso degli studi universitari di primo ciclo. Questo è dovuto ad un’altra riforma scolastica, quella del cosiddetto ‘3 + 2’ del 1999, strettamente connessa al Processo di Bologna, riforma che ha sì consentito l’aumento del numero di laureati, ma che vede l’Italia ancora lontana dai numeri più incoraggianti dei paesi Ocse, anche per quel che riguarda gli sbocchi lavorativi. Oggigiorno il verso potrebbe trasformarsi in: «Io sono il primo laureato che lavora perché ha studiato».

 

[3] Mio padre in fondo aveva anche ragione
a dir che la pensione è davvero importante.
Mia madre non aveva poi sbagliato
a dir che un laureato conta più di un cantante.

 GB - [3] Questa strofa mi fa pensare che per la mia generazione la ‘Pensione’ è quasi una figura mitologica della fine dei tempi, che si è materializzata, manifestata per i nostri genitori e nonni, ma che non è affatto certo possa farlo anche per noi. Il lavoro precario, i vari tipi di contratti degli ultimi anni che rimandano a versi animali e non di certo a canzoni o melodie (co.co.co etc.) hanno, infatti, disumanizzato la visione del futuro, che già di per sé è sempre problematica, e, in molti casi, hanno portato alla scelta di andarsene via dall’Italia. Una sorta di nebbia ci circonda, in cui si è costretti a muoversi, anche velocemente, senza sosta; non solo non si vede cosa c’è davanti a noi, ma anche ciò che è vicinissimo a noi si ‘confonde’, perde materia, sostanza, in mezzi di comunicazione altrettanto dis-umani. Così, anche le poche certezze in quanto a lavoro e istruzione di qualche generazione fa sono sfumate.  La madre di Guccini non direbbe forse lo stesso ai nostri giorni. La laurea, in Italia, ha sempre meno valore, o, per meglio dire, chi si laurea non «conta» più di un cantante, non ha più le certezze che poteva avere qualche anno fa (di qualsiasi facoltà si tratti). Certo, bisognerebbe capire cosa si intenda per ‘cantante’ al giorno d’oggi, anche questa figura non mi sembra navigare in buonissime acque. Mi chiedo se un ‘Guccini’ dei nostri tempi si darebbe in pasto a qualche talent shows dove in qualche minuto, o poco più, ci si può giocare una carriera.

LC – [3] Eccola la generazione dei genitori, attestatasi su un ‘fronte’ fatto di laurea e di pensione che ha tenuto botta quasi tutto il secondo Novecento, un po’ come la prima repubblica italiana, per poi declinare all’inizio degli anni Novanta ed entrare bellamente in crisi nel nuovo secolo e millennio, in cui la laurea non basta più e la pensione è una sorta di terra promessa… Nel 1976, invece, i genitori di Guccini, e di tanti altri della sua e delle generazioni successive, potevano anche avere ragione a sostenere che la pensione è importante e che un laureato conta più di un cantante. La vita sociale normale ruotava intorno a quei due cardini, dal proletariato (che ancora c’era e c’è) alla borghesia tutta (che ancora c’era e c’è). Da un lato la cultura come fattore di promozione sociale non voleva né in fondo poteva, la maggior parte delle volte, tradursi in ‘arte per l’arte’ o ‘fine studio mai’. La laurea e la cultura che conteneva non era un mezzo, un trampolino per tuffarsi nella piscina dell'amore disinteressato per il sapere: era invece lo scopo, perché laurea coincideva spesso, ancora, con posto di lavoro e quindi con pensione. Dall’altro la cultura ribadiva che non poteva essere ridotta a un fattore di promozione sociale – cosa in sé sacrosanta – ma lo ribadiva con maggiore e pseudo-aristocratica ipocrisia rispetto a quanto fatto dalla nobiltà nei secoli passati della nostra cara, falsa modernità. E di un Parini neanche l’ombra, ovvio. Allora tanto valeva confessarsi laicamente, come un Guccini, intonando un «Giovane ingenuo io ho perso la testa».

 

[4] Giovane ingenuo io ho perso la testa
sian stati i libri o il mio provincialismo
e un cazzo in culo e accuse di arrivismo
dubbi di qualunquismo son quello che mi resta.

 GB – [4] La perdita della testa mi ricorda una poesia di Jeau-Claude Pirotte, j’avance en portant ma tête, un autore belga da poco scomparso, originario della città in cui ora vivo, Namur. In quel testo il protagonista è il poeta anziano, morente, e la testa ‘rotolante’ lo conduce a una perdita definitiva di sé. Il perdere la testa del giovane Guccini mi sembra invece un vero e proprio innamoramento, un’infatuazione – che si è dimostrata duratura e costante – per ciò che ha fatto e che fa. Un’infatuazione però che ora, nel momento della riflessione, si considera non meno problematica rispetto a quanto è accaduto al poeta anziano. I «libri» e il «provincialismo», cause, sembra, di questa infatuazione, creano una specie di contrasto: la formazione, le letture, da un lato, e l’essere provinciali, orbitanti lontano da un centro, dall’altro (come un pianeta periferico ma tenace), hanno generato una forza attrattiva verso qualcosa che ha mutato l’orbita e che ha portato il cantautore – la sua testa perduta – più vicino alla luce dei riflettori, certo, ma anche a nuove forme di esperienza. Ad errare.

Al cantautore che ha «perso la testa» e che ha «sbagliato», pare restare ben poco. L’esporsi e mettersi alla prova, lasciare che la propria testa si perda, che la propria orbita cambi, porta a dubbi, ad accuse e, inevitabilmente, ad un avvelenamento. Ma non si tratta di un avvelenamento ‘all’acqua di rose’, non un semplice sfogo verbale. La formazione, la costruzione della Bildung del non poi così «fesso» Guccini, gli consente di scrivere e cantare una canzone capace non solo di restare nel patrimonio musicale italiano, ma anche di mettere sotto i riflettori quella critica, quegli stessi ‘accusatori’ che lo hanno accusato e che hanno messo in dubbio le sue qualità cantautoriali.

LC – [4] La quarta è la strofa degli «ismi» di L’avvelenata, tre in quattro versi, due pure a rima (uno a formarne una interna): provincialismo, arrivismo, qualunquismo. Mi son sempre chiesto se ci fosse una qualche, più o meno significativa, ‘relazione’. Che il «provincialismo» venga per primo, va quasi da sé, e non necessariamente situandosi in seno al solito discorso negativo per cui se c’è una nazione malata di provincia e campanili, questa è l’Italia… Direi semmai che il «provincialismo» è il dato da cui prende le mosse chi canta, pochi versi prima, il famoso e dilatato «son della razza mia, per quanto grande sia, / il primo che ha studiato». E non è proprio un caso che nella quarta strofa della canzone il dato provinciale sia amplificato da un soggetto che gli è predisposto come il cacio sui maccheroni (il «giovane ingenuo») e poi, quasi attraverso un’alternativa verosimilmente oggettiva («i libri»), sia accompagnato e come siglato dall’ovvia infatuazione culturale che fa perdere la testa a chi si pensa altrimenti, almeno una volta nella vita, magari come artista.

Direi allora che qui il «provincialismo» è il nostro romanzo di formazione, di italiani ma anche di europei (e chi ha viaggiato un po’ in Europa, anche soltanto in quella centro-occidentale, diciamo, sa bene a cosa sto alludendo). In tal senso, e magari sbagliandomi alla grande (chiedo venia), nel testo di Francesco Guccini e in assoluto, non ho mai considerato il provincialismo come un dato negativo, del tutto serrato, ovvero sempre teso a bloccare o a rallentare il dialogo con l’esterno e quindi la crescita culturale, né l’ho visto come tale suicidarsi nei microcosmi dell’«Italietta», nei piccoli ‘mondi piccoli’ della campagna lontana dalle grandi città, dalle metropoli.

C’è tutta un’Europa e un’Italia di provincia che, uscendo a fatica dagli imperialismi e dai totalitarismi di un secolo di storia almeno, cercava una nuova via alla realtà, nella seconda metà del Novecento, in cui le tante province facevano sistema senza consegnarsi per forza e di nuovo a sogni di guerre e di imperi. Si voleva fare cultura, non ucciderla, mettendo mano alla fondina. Si sognava a ogni piè sospinto una certa apertura e si cantava l’accettazione d’una differente pluralità. Chi ha accusato e accusa di «arrivismo», pontificando dallo scranno e muovendo contro questo sano provincialismo, la nostra migliore gioventù, fino a instillarle «dubbi di qualunquismo», ha sacrificato e sacrifica la stessa a quel mondo sempre più qualunque e globalizzato di cui si accolgono esclusivamente dettati in una sola e unica ‘lingua’, in una sola e unica ‘identità’.

 

crayongris2Gabriele Belletti (1980), originaire de Santarcangelo di Romagna, vit et enseigne en Belgique. Après des études en Philosophie aux Universités de Bologne et de Florence, il a obtenu un doctorant en Langue et Littérature italiennes en cotutelle internationale à l’Université de Nantes. Il a publié des articles sur la poésie italienne du 20e siècle (Chroniques italiennesPoetiche, Rivista di studi italiani) et deux plaquettes de poésie : Condominio (Anterem, 2010) et Beaujoire (CaratteriMobili, 2013). Son premier recueil, Krill, est sorti chez Marcos y Marcos en septembre 2015.

crayongris2Luciano Curreri (1966), originaire de la Sicile et de l’Émilie Romagne, enseigne à l’ULg depuis 2002, après s’être formé à l’Université de Turin et avoir travaillé à l’Université de Savoie, de Grenoble et de Florence. Parmi ses publications : Pinocchio in camicia nera. Quattro “pinocchiate” fasciste (Nerosubianco 2008, éd. revue 2011), Mariposas de Madrid. Los narradores italianos y la guerra civil española (Prensas Universitarias de Zaragoza 2009), L'elmo e la rivolta. Modernità e surplus mitico di Scipioni e Spartachi (bd/essai avec G. Palumbo, Comma 22 2011), L'Europa vista da Istanbul. Mimesis (1946) e la ricostruzione intellettuale di Erich Auerbach (Sossella 2014). À paraître prochainement chez Quodlibet, dans ELEMENTS (Collection internationale de courts essais, en plusieurs langues et en format numérique, co-dirigée avec Fichera et Traina) :  Fiction, propagande, témoignage, réalité. Cinq microessais sur la représentation de la guerre civile espagnole en Italie (2016). Il participe régulièrement à l'émission "Il Tempo e la Storia", diffusée sur RAI 3.