Se tutte le famiglie infelici fossero infelici allo stesso modo, non sarebbe possibile raccontare. La folgorante intuizione con cui Tolstoj apriva Anna Karenina può aiutarci a leggere, magari a contropelo, l'ultimo romanzo di Nicola Lagioia, La ferocia (2015).
Questo libro, da poco insignito in Italia del prestigioso Premio Strega, ha il merito di saper porre determinati problemi, anche se non sempre quello di indicare, in modo peculiare, come “risolverli” stilisticamente, sciogliendoli in una forma che sia nuova e saliente al tempo stesso. Il romanzo è ambientato principalmente a Bari, città di cui l'autore è originario. Gli anni sono grosso modo quelli presenti, anche se la fabula è fittamente trapuntata da un intreccio che segmenta il filo narrativo e tende di continuo a muoversi all'indietro nel tempo. Ancora una volta, nel solco tradizionale del romanzo storico-politico italiano, la categoria centrale è quella del tristemente noto «familismo amorale», per cui gli interessi di un ristretto nucleo familiare prevalgono su quelli collettivi e comunitari. Qui semmai la parziale novità sarebbe che sono i figli, anche se non tutti e non sempre, a tentare di compattarsi nella difesa del potere dei padri, mentre lo stesso non può dirsi a proposito di quest'ultimi. Accade così che la violenza feroce menzionata già nel titolo sia portata non solo verso i nemici esterni, ma anche e soprattutto, in forme oblique e dunque più subdole, all'interno della famiglia in questione: quella dei Salvemini. Partiamo dall'anziano ma tenacissimo Vittorio, indiscusso padre padrone della casa, potente e facoltoso proprietario di un'impresa edile, che contribuisce senza alcuna remora, e in barba a qualsiasi legge, alla criminale distruzione di interi territori pugliesi. Quando l'impresa finirà nell'occhio del ciclone delle indagini giudiziarie, Vittorio non esiterà a coinvolgere a vario titolo tutti i componenti della famiglia nel tentativo di salvare la baracca, sfruttando, in modo fraudolento, ora la posizione di potere del figlio Ruggero presso un'importante Istituto oncologico, ora la bellezza irresistibile della figlia Clara. Razza padrona, quella dei Salvemini. Ma il meccanismo ben oliato dell'ipocrisia arrogante troverà il suo punto d'inciampo in Michele, figura centrale, assieme alla sorella Clara, del romanzo. Figlio non conciliato, orfano della madre che muore dopo il parto, vergognoso frutto di una relazione adulterina di Vittorio e quindi istintivamente inviso alla moglie di quest'ultimo, il ragazzo vive da estraneo tra le pareti di casa. Solo con la sorella Clara, appunto, vive in un rapporto simbiotico ed esclusivo, che assumerà via via i tratti di un'«agghiacciante simmetria» – per citare un noto testo poetico di William Blake, La tigre, a cui nel romanzo più volte, e non banalmente, si allude. Come due gemelli, come due fotocopie della mente, i due sembrano vivere sdoppiati l'uno nell'altro in uno stato di perenne, angelica empatia; ognuno sembra poter sentire la vita del consanguineo con un'immediatezza che da una parte entusiasma, dall'altra atterrisce. Questo sdoppiamento è già un principio evidente di schizofrenia. Attorno al tema della follia si dipanano infatti le vicende di Michele, che comincia a manifestare segni di disturbo bipolare prima a scuola, e poi soprattutto in caserma – il padre, pur potendo, e nel tentativo cinico di sbarazzarsene, non fa nulla per evitare al figlio l'esperienza del militare, di sicuro devastante per un soggetto già borderline. Il risultato sarà il ricovero coatto in isolamento presso una clinica psichiatrica. A questo punto la rottura del legame viscerale fra Clara e Michele produce un'accelerazione vertiginosa e decisiva, per cui un'insaziabile cupio dissolvi si impadronisce della ragazza. Clara, perdutamente imprigionata in un delirio autodistruttivo, diventa irriconoscibile a sé e agli altri, e comincia a sdoppiarsi in una vita totalmente scissa, fatta di abiezione e masochismo. Ora il movente del suo continuo, patologico prostituirsi con lo squallido potente di turno non è più salvare il padre e la sua ditta, ma, cosa ben più gravida di conseguenze nefaste, il proposito di punirsi per non aver saputo preservare il fratello dalla feroce meschinità familiare.
Il romanzo inizia con la tragedia di Clara, procedendo poi à rebours nel ricostruire l'accaduto secondo punti di vista molteplici. Ma il suo perno, anche formale in un certo senso, risiede nel personaggio di Michele. Il capitolo che lo riguarda più da vicino, intitolato “Divenni pazzo”, è quello centrale del libro. In esso si racconta come il ragazzo si distacca, lentamente, ma inesorabilmente, dal mondo “normale” degli altri. Un passaggio significativo in tal senso è quello in cui si riporta la testimonianza della professoressa di matematica, la quale ha notato che l'allievo non risolve mai i problemi assegnatigli in classe, perché segue contemporaneamente mille strade, tutte diverse da quelle battute dai compagni; in realtà egli esplora, con coraggio e frustrazione crescenti, metodi che ancora nessuno gli ha spiegato. Sembra non fidarsi di quello che gli viene insegnato: «Michele non arriva alla soluzione del problema, preso dall'ansia di aggredirlo in tanti modi diversi». Qui sembra che l'autore fornisca indirettamente anche un'indicazione narrativa a proposito del proprio “cubismo” letterario, in virtù del quale la vicenda viene raccontata da punti d'osservazione molteplici, ricominciando, quasi ossessivamente, ogni volta da capo, e dando della realtà un'immagine estremamente frammentaria e irrisolta. Alla fine del romanzo però Michele guarisce; immagina, invece di sentire su di sé, la sofferenza della propria gatta sparita nel nulla: «Ma il mio dolore è amputato», confessa a se stesso. È uno dei rarissimi momenti in cui alla narrazione in terza persona, per il resto monotonamente prevalente, si sostituisce una sorta di “pensiero riportato”, ascrivibile direttamente al personaggio. Anche la trama del libro però guarisce, visto che alla fine in qualche modo il cerchio si chiude, e il malfattore Vittorio, insieme alla famiglia, verrà condannato allo scacco. Viene da chiedersi se fosse proprio necessario ammannire al lettore il confetto dolciastro della consolazione.
Noi preferiamo attestarci su pagine più intriganti: quelle in cui l'autore, a partire dall'incipit, disegna un fitto e variegato campionario della ferocia, trasportando allegoricamente nel mondo animale le penose storture che la cattiveria della specie umana sta regalando al mondo. Anche qui però qualcosa rimane fuori quadro. Si vorrebbe infatti, per fare solo un esempio concreto, che la pur splendida idea del fenicottero morente, perché intossicato dai rifiuti speciali che contaminano il Gargano, si traducesse in un'immagine capace di gelidamente emozionare, oltre che di far riflettere; o che tale idea si incarnasse in un linguaggio, in una parola capaci di segnare uno scarto riconoscibile rispetto all'odierno ron ron, e di imprimere sulla pagina un'orma più consistente e duratura. Ma si ha l'impressione che, per lo più, le cose vengano semplicemente dette, quando in letteratura è necessario farle sentire, farle intuire, andando a sfiorare, ripetutamente, e con timore e tremore, la radice estrema della vita. Come dopo tutto ci insegnano, felicemente, o infelicemente, gli “ammalati” Clara e Michele. Almeno fino a quando gli è concesso di esserlo davvero, fino in fondo, e senza speranza.
Nicola Lagioia, La ferocia, Einaudi, Torino 2015, pp. 413.
Gabriele Fichera
Octobre 2015
Gabriele Fichera est chercheur post-doc à l'Université de Liège en Littérature italienne. Ses principales recherches portent sur la Littérature italienne entre le 19e et le 20e siècle et sur la Littérature comparée. Notamment il étudie l'essayisme des écrivains et les rapports entre engagement, fiction, et vérité dans l'écriture contemporaine.